L’ITALIA È IN RECESSIONE: DI MAIO SMETTA DI PRENDERE IN GIRO GLI ELETTORI

La notizia era nell’aria da tempo. Che il clima fosse cambiato in Italia, almeno per quel che concerne l’ambiente economico, si era avvertito, ma adesso è arrivata l’ufficialità: l’Italia è in recessione.

A metterlo nero su bianco è stato l’Istat, che ha pubblicato il rapporto relativo al quarto trimestre dell’anno scorso. È il secondo trimestre consecutivo – dopo cinque anni di segno più – che il Pil subisce una contrazione, questa volta dello 0,2%. Non un grande scossone, certo, ma quanto basta per far scattare qualche campanello d’allarme, almeno per tutti coloro i quali hanno a cuore le sorti di questo paese.


A ben vedere, però, quanto emerso dalle ultime notizie non ha sconvolto più di tanto il governo, soprattutto il Movimento 5 Stelle, con il vice-premier e ministro Di Maio che si è affrettato a dichiarare alla stampa che, se le cose stanno così, è evidente che “quelli che c’erano prima ci hanno
mentito”. Ora, Fratelli d’Italia non può essere certo accusato di spalleggiare il Partito Democratico, anzi, ma, se pure è vero che la contrazione non può essere del tutto imputabile al nuovo esecutivo, certo è che quest’ultimo non ha fatto nulla per evitarla.

Al contrario, si è tentato in tutti i modi di giocare una partita con l’Unione europea rischiando che il popolo italiano fosse esposto ai rischi della speculazione dell’alta finanza. E i risultati di questo tira e molla sono stati quanto più deludenti, soprattutto se visti dalla prospettiva dell’elettorato di centro-destra: nella manovra in vigore per il 2019 non c’è alcun riferimento al taglio delle tasse, all’abbassamento delle accise.

Prevalgono le misure assistenzialiste, che certamente non avranno alcun impatto sul PIL, mentre – viceversa – contribuiranno ad appesantire le uscite statali. L’Italia avrebbe bisogno veramente di un cambiamento, ma certamente non è questo quel che si aspettavano gli elettori. E soprattutto non è prendendo in giro gli italiani, cioè glissando su una tematica importantissima come lo è l’andamento dell’economia, come fa Di Maio, non è così, dicevo, che questo Paese potrà uscire dal pantano in cui è finito.

Luca Vitale, Fratelli d’Italia-Grosseto.

SEMPRE MENO NATI OGNI ANNO, L’ITALIA DI FRONTE AD UN’EMERGENZA CHE LA POLITICA FA FINTA DI NON VEDERE

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Che in Italia si facciano sempre meno figli non è una novità; che la situazione rasenti l’emergenza nemmeno. Eppure la politica sembra poco preoccuparsi di questa tematica, nonostante continuamente arrivino dei dati che fotografano una condizione demografica a dir poco preoccupante per chiunque abbia a cuore il futuro del nostro Paese.


L’Istat, di recente, ha pubblicato un rapporto da cui sono emersi dei dati spaventosi: nel 2017 sono nati in Italia poco più di 458 mila bambini. È la cifra più bassa dal 1861 ad oggi. Il numero degli ottantenni ora è più alto rispetto a quello dei nuovi nati. Ciò ci mette di fronte ad una situazione
drastica sotto molti aspetti. Non solo la popolazione, se il trend continuasse, si ridurrebbe nell’arco di qualche decennio, ma la stessa economia italiana ne risentirebbe.

Riducendosi la popolazione in età lavorativa, sarebbe pressoché impossibile assicurare a tutti una pensione dignitosa, e questo è solo uno degli effetti del calo demografico, quello forse più immediato. E la tendenza non sembra invertirsi, almeno nel medio termine: sono infatti in diminuzione anche le
donne in età feconda (15-49 anni), il cui numero si è abbassato di 900 mila unità tra il 2008 e il 2017.

È vero che questo problema accomuna quasi tutti i paesi europei, Francia a parte, insieme ad altre sporadiche eccezioni, ma è da dire altresì che in Italia si registra il peggiore squilibrio demografico: il Belpaese è infatti ultimo nel rapporto neonati-popolazione anziana. In un contesto simile, la politica vera, quella che pensa alle prossime generazioni più che alle prossime elezioni, si dovrebbe occupare di trovare delle soluzioni immediate ed efficaci tanto quanto lo richiede l’urgenza della situazione. Invece accade tutt’altro: Fratelli d’Italia e Giorgia Meloni sono rimasti i soli a vigilare sulla problematica in questione e a spingere il Parlamento ad adottare provvedimenti utili a invertire la tendenza.

Durante la campagna elettorale delle ultime elezioni politiche abbiamo proposto un “piano natalità” coraggioso: asili nido gratuiti per tutti,
estensione dell’orario di apertura e turnazione estiva per le madri lavoratrici, introduzione del reddito d’infanzia con un sostegno alle famiglie di 400 euro mensili per ogni figlio fino a 6 anni d’età, per famiglie con redditi sotto 80mila euro annui. Nulla di tutto questo è entrato a far
parte della manovra di bilancio del governo attuale, che ha preferito varare una riforma che non aiuterà né l’economia né la demografia italiana. Ci sarà – forse – il reddito di cittadinanza, ma avremo sempre meno cittadini.


Luca Vitale, Fratelli d’Italia-Grosseto.

BASTA PORRE LA FIDUCIA IN PARLAMENTO, IL DIBATTITO TORNI AD ESSERE SEDE DI CONFRONTO TRA GOVERNO E OPPOSIZIONI

È stato pubblicato l’undicesimo rapporto della rivista “The Economist” sullo stato della democrazia nel mondo. Ogni anno il settimanale inglese vigila su tutti i paesi al fine di comprendere le variazioni nell’assetto politico delle varie nazioni, stilando una classifica che – sulla base di alcuni indici – ordina la democraticità degli ordinamenti degli stati. Nel rapporto di quest’anno non sono state registrate variazioni significative: al primo posto vi è la Norvegia, all’ultimo la Corea del Nord.
A detta degli analisti, in Italia, rispetto agli anni precedenti, la situazione è peggiorata: dalla ventunesima posizione dell’anno scorso alla trentatreesima di quest’anno. A determinare questo peggioramento – sempre secondo i redattori inglesi – hanno contribuito soprattutto la sfiducia verso le istituzioni, l’esigenza di affidarsi a “uomini forti”, la retorica contro gli stranieri.
Personalmente non penso che le valutazioni dell’Economist siano corrette, alcuni indici da loro utilizzati sono squisitamente politici e poco hanno a che fare con la democraticità delle istituzioni italiane.

In Italia si vota, il popolo ha il diritto di scegliere i propri rappresentanti e il governo attuale rispecchia in parte le posizioni dell’elettorato italiano. Tuttavia ritengo sia doveroso interrogarsi sullo stato di salute della democrazia del nostro paese, soprattutto per quel che concerne il
dibattito parlamentare. Da alcuni anni a questa parte, infatti, gli esecutivi che si sono avvicendati, pur nella diversità del loro colore politico, hanno una cosa in comune: tutti hanno cercato di bypassare il dibattito parlamentare a colpi di fiducia. Questa pratica malsana, usata dal Partito
Democratico (il termine “democratico” è evidentemente antifrastico), continua ad essere praticata anche dal governo 5Stelle Lega e impedisce un sano confronto alla Camera e al Senato su provvedimenti che riguardano tutti, non soltanto i loro elettori. Questo abuso dell’istituto della fiducia ha un effetto deleterio in sede parlamentare, in quanto toglie alle opposizioni la possibilità di contribuire alla funzione legislativa che spetta ai deputati e ai senatori.

Fratelli d’Italia, che pure in questi mesi ha portato avanti un’opposizione costruttiva, si è trovata costretta a non poter esprimere il proprio parere sui singoli provvedimenti proprio a causa della cesoia della “fiducia”, che castra sul nascere anche il tentativo di appoggiare i disegni di legge e migliorarli ulteriormente.
I cinquestelle, che fino a pochi anni fa chiedevano democrazia diretta, stanno manomettendo persino le istituzioni della democrazia rappresentativa.

È per questo che, stando così le cose, Giorgia Meloni e i rappresentanti di Fratelli d’Italia, pur essendo d’accordo con alcuni provvedimenti di Salvini, non possono trovare spunti di dialogo affinché l’elettorato di centro-
destra veda rappresentate le esigenze emerse in campagna elettorale.

È questo che deve far preoccupare più di ogni altra cosa sullo stato della democrazia in Italia, più di qualsiasi altro indice.
Luca Vitale, Fratelli d’Italia-Grosseto

FESTA DEL TRICOLORE, UNA DATA CHE MERITA DI ESSERE RICORDATA

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Forse non tutti sanno che oggi, 7 gennaio, ricorre la “festa del Tricolore”, ovvero la ricorrenza della nascita della bandiera italiana. Il Tricolore nasce a Reggio Emilia, nel 1797, in piena età napoleonica. Il parlamento della Repubblica Cispadana, formatasi in conseguenza delle conquiste
francesi post-rivoluzionarie, in questa data di duecento ventidue anni fa decise di adottare uno stendardo a tre strisce verticali su modello della bandiera della Francia.
Nonostante la Repubblica Cispadana ebbe vita breve, come tutte le altre repubbliche di Bonaparte, il Tricolore, nell’immaginario dei protagonisti del Risorgimento, rimase l’emblema del sogno di un’Italia unita. Il 23 marzo 1848 Carlo Alberto di Savoia decise dunque di includere il Tricolore
nel proclama della Prima Guerra di Indipendenza e fino al 1925, quando la bandiera italiana fu definitivamente adottata per legge, per tutti essa rappresentò il Regno d’Italia.

Nel tempo, la bandiera ha subito delle modifiche: dopo il referendum del 1946 scomparve definitivamente qualsiasi riferimento a Casa Savoia; ciò che però non è mai cambiato e che ancora oggi ci rende orgogliosi di essere parte di questo Paese è – appunto – il mix di colori che rimandano a
molteplici significati. Tra tutti, mi piace sottolineare l’interpretazione più comune: il verde rappresenta la speranza, il bianco simboleggia la fede, il rosso l’amore e il sangue versato dai patrioti per raggiungere il sogno di un paese unito da Nord a Sud.

Ed è da qui che Fratelli d’Italia, che orgogliosamente sfoggia il tricolore all’interno del simbolo di partito, intende ripartire: dalla speranza verso un futuro migliore, dalla fede nell’appartenenza a valori comuni e dall’amore verso un paese il cui onore troppo spesso in questi anni è stato
calpestato.

Luca Vitale, Fratelli d’Italia – Grosseto

MANOVRA FINANZIARIA, PIÙ TASSE E MENO INVESTIMENTI. CRITICHE DA FRATELLI D’ITALIA

Per un soffio, il governo è riuscito ad evitare l’esercizio provvisorio, ottenendo l’ok parlamentare sulla manovra di bilancio in vigore dal nuovo anno. Dopo mesi di tira e molla con la Commissione Europea, l’esecutivo Lega-Cinque stelle ha portato a termine una legge finanziaria che è la risultante dei programmi elettorali dei due partiti ora insieme a Palazzo Chigi. Ma se in campagna elettorale al popolo italiano era stato assicurato che non sarebbe stata aumentata la pressione fiscale, sembra che adesso – pur di attuare le misure bandiera dei due partiti, e dei pentastellati in particolare – le promesse non valgano più.

L’Ufficio parlamentare di Bilancio, organismo indipendente che ha il compito di vigilare sulla finanza pubblica, ha certificato che, per il triennio che comincerà nel 2019, la pressione fiscale aumenterà, passando dall’attuale 42% al 42,4% del prossimo anno e aumenterà di un ulteriore decimale nel 2020, senza considerare le clausole di salvaguardia che, nel caso dovessero essere attuate, varrebbero da sole l’1,5 per cento in più. E che dire degli “investimenti ad alto moltiplicatore” tanto cari ai grillini? Anche quelli sembrano essere stati accantonati: per il 2019 gli investimenti statali potrebbero addirittura ridursi di un miliardo rispetto agli anni precedenti. Stando così le cose, l’Ufficio di Bilancio paventa addirittura un rischio recessione per gli anni successivi al prossimo. Le stime di crescita sono state corrette rispetto alla precedente bozza, motivo di contrasto con Bruxelles, ma – sottolinea ancora Giuseppe Pisauro, presidente dell’Ufficio Bilancio – vi sono notevoli rischi di nuove stime al ribasso.

Fratelli d’Italia, con Giorgia Meloni, ha stigmatizzato l’atteggiamento remissivo del governo nei confronti delle istituzioni UE, sottolineando come si sia passati da un “me ne frego” ad un “obbedisco!” nel giro di pochi giorni. Non solo, ha sottolineato ancora Meloni: che ne è stato del taglio alle accise sulla benzina? Per il 2020 sono previsti infatti ben 400 milioni in più di ricavi sulle accise stesse.

Critico anche Luca Vitale, esponente grossetano di Fratelli d’Italia: “Dopo un patetico tira e molla con l’Unione, il governo ha deciso di fare retromarcia di fronte ai commissari europei, con buona pace della sovranità italiana che pure Salvini aveva detto di voler difendere. E quello che è venuto fuori da questa messinscena piacerà poco agli elettori italiani: si doveva attuare una flat tax e invece si scopre che la pressione fiscale aumenterà ancora, per non parlare del fatto che la manovra non è stata nemmeno discussa in Parlamento, ma è stata varata a colpi di fiducia come in precedenza ci aveva abituati la sinistra”. “Sono sicuro – continua ancora Vitale – che Giorgia Meloni saprà difendere gli interessi degli elettori di centro-destra delusi da questa manovra scritta in gran parte dai Cinquestelle e dai burocrati europei”.

OVER-65: IN AUMENTO LA POPOLAZIONE ANZIANA, MA MENO FONDI PER LE SPESE SANITARIE

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Si è parlato qualche giorno fa della difficoltà del mondo giovanile nel trovare un impiego ed avere una condizione economica stabile, ma un altro problema che contraddistingue il nostro Paese, e che abbisogna di soluzioni urgenti, riguarda un’altra fascia di popolazione, quella dei “non più giovani”, per usare una perifrasi di un termine sempre meno in voga. Il punto è che per quanto la società contemporanea tenti di far finta di non vedere o addirittura di nascondere l’“anzianità”, questa non scompare, anzi: viste le dinamiche demografiche dell’Italia, si può dire che la sua popolazione si fa sempre più vecchia. E il tentativo di eludere la questione non può farci ignorare i bisogni di chi, con l’avvento della terza età, deve far fronte a esigenze specifiche che necessitano di aiuti difficili da ottenere e non accessibili a tutti.

Già oggi gli over 65 rappresentano il 22% della popolazione italiana e, a detta dell’ISTAT, la tendenza si confermerà anche per i prossimi decenni. Nel 2045 avrà oltrepassato la soglia dei 65 anni di età il 33,7% della popolazione. Il dato di per sé non è negativo, tutt’altro: significa che l’età media si innalza anche per effetto di una maggiore longevità. Diventa fonte di preoccupazione, però, quando si tiene conto dell’abbassamento della qualità di vita della popolazione più anziana. In aumento, nel prossimo futuro, saranno infatti anche i pensionati con limitazioni funzionali che avranno bisogno di cure peculiari; al contempo, diminuisce il numero di caregiver familiari, cioè di parenti disposti ad accudire le persone in stato di necessità, poiché non sempre ciò si concilia con gli impegni lavorativi dei più giovani. Ecco allora che ci si deve rivolgere ad un aiuto “esterno”, che però diventa sempre più costoso. Secondo una ricerca condotta da Auser, infatti, più della metà delle famiglie in cui sono presenti anziani non autosufficienti ha avuto o ha tuttora difficoltà a sostenere le spese sanitarie per il proprio caro. E, a giudicare dalle tendenze occupazionali degli under-35, la situazione si protrarrà nel futuro, col rischio di vedere peggiorare la qualità della vita sia per i più giovani, sia soprattutto per i più anziani, considerate altresì le difficoltà di accesso ai servizi domiciliari: tra il 2009 e il 2013 in Italia gli anziani sono aumentati dell’8,6 per cento, passando da 11.974.530 a 13.007.490. Nello stesso tempo sono diminuiti del 21,4 per cento gli anziani che hanno beneficiato del servizio di assistenza domiciliare (Sad) passando da 190.908 del 2009 (1,6%) a 149.995 del 2013 (1,2%). Questo significa che la spesa pubblica prevista per far fronte alle necessità della popolazione anziana è di gran lunga insufficiente, e se l’evoluzione demografica dell’Italia vede un aumento esponenziale dell’età media, tutto ciò si traduce in una situazione di completa emergenza che rischia di diventare esplosiva.

Per Luca Vitale, esponente grossetano di Fratelli D’Italia, “la questione va affrontata il prima possibile, poiché è evidente che i servizi offerti dal welfare non riescono a coprire le necessità delle persone più in là con gli anni”. “Sempre più spesso” – continua Vitale – “a livello locale, dove è più facile che la politica incontri il cittadino, una delle richieste più frequenti è proprio lo stanziamento di maggiori fondi per la gestione dei bisogni dei più anziani. I familiari non sempre riescono a far fronte a tutto e la pensione da sola non è sufficiente a coprire tutte le spese. Prendersi cura della popolazione più bisognosa è un imperativo morale per la politica tutta”.

DISOCCUPAZIONE GIOVANILE, SONO NECESSARIE SOLUZIONI SUL LUNGO PERIODO, È A RISCHIO LA SOPRAVVIVENZA DEL PAESE

Giovani e lavoro. È questo uno dei nodi centrali della situazione economica italiana e non solo. Se ne parla spesso, ma mai abbastanza, in realtà, poiché i dati che emergono continuamente dalle ricerche e dalle statistiche continuano a fotografare una condizione che dire precaria non è in grado di restituire il dramma generazionale nelle dovute proporzioni. In questi anni di crisi economica le difficoltà si sono ripercosse su tutte le fasce sociali, a prescindere dai criteri che gli esperti di statistica usano per raggruppare la popolazione. Ma che gli under-35 siano di gran lunga la categoria che più paga il costo di un decennio di difficoltà è la costante di ogni sondaggio effettuato sul mondo del lavoro.

Si potrebbe riassumere l’attuale condizione giovanile in pochissime parole: i giovani non lavorano o, se trovano un impiego, questo non è sufficiente a permettere loro di mantenersi da soli. E il riassunto potrebbe benissimo concludersi qui, perché veramente non vi è altro da aggiungere. Tuttavia, ciò sarebbe impreciso e ingiusto. Impreciso perché vale la pena citare numeri e percentuali che le ricerche si affrettano a mettere in ordine con tanta perizia; ingiusto perché le poche parole usate sopra rischiano di diventare un luogo comune, un leitmotiv che non è in grado di dipingere con cura il disagio esistenziale che colpisce chi fatica a trovare un impiego in grado di restituire al lavoratore la propria indipendenza. Da cittadino italiano e da esponente locale di Fratelli d’Italia, ritengo sia mio compito non tralasciare alcun aspetto di questa tragedia, perché urge una soluzione e la classe politica non può evitare di farsi carico del futuro del paese, rappresentato – appunto – dagli stessi giovani che, con immense difficoltà, provano a costruirsi un avvenire a tinte meno fosche rispetto a quelle attuali.

Secondo l’Eurostat più di 66 giovani su 100 di età compresa tra i 18 e i 34 anni vivono ancora con i genitori, in leggera risalita rispetto al 65% dell’anno scorso. E uno dei principali motivi di questa difficoltà ad allontanarsi dal nucleo familiare è, nemmeno a dirlo, la penuria di posti di lavoro: l’Italia è tra i paesi UE in cui la disoccupazione giovanile fa registrare i tassi più alti: il 31,6%, il doppio rispetto alla media europea, più del triplo rispetto alla media totale dei disoccupati in Italia (10,1%), a testimonianza del fatto che la mancanza di un impiego colpisce soprattutto i più giovani. Peggio di noi, solo la Spagna e la Grecia (rispettivamente 34,3 e 37,9% di disoccupati sotto i 25 anni).

Anche nel caso in cui si riuscisse a trovare lavoro, questo non sarebbe comunque in linea con le aspettative. Tra i professionisti che vorrebbero una nuova opportunità di carriera, il 90% di questi è rappresentato dai cosiddetti “Millennials”, generazioni comprese tra i 24 e i 38 anni, secondo quanto emerge da una ricerca condotta per LinkedIn. Per il 36% dei lavoratori appartenenti alle nuove generazioni, lo stipendio è addirittura sotto la soglia di adeguatezza per uno stile di vita accettabile e il 14% dichiara di aver bisogno di un aiuto da parte della famiglia per far fronte alle spese.

Quelle sopra elencate sono cifre spaventose per chiunque, perché dietro ai numeri vi sono delle persone. Persone a cui la politica tutta, tanto a livello locale quanto a livello nazionale, deve una risposta immediata, sincera e risolutiva. In questi anni si è provato a risolvere la questione con soluzioni temporanee, capaci tuttalpiù di mettere una pezza passeggera su una ferita profonda. Bisogna dunque agire con vigore. Per esempio, abbassando il cuneo fiscale per le nuove assunzioni, fornendo maggiori incentivi fiscali a chi decide di metter su famiglia. Ma nessuna soluzione sarà efficace se la misura che la introduce è destinata a durare qualche mese; bisogna agire sul lungo periodo, perché se ottenere un impiego è quasi impossibile, e se dopo averlo ottenuto si rimane comunque in una situazione precaria, allora sarà sempre più difficile decidere di creare nuovi nuclei familiari, ed i tassi di natalità in Italia sono già impietosi, mentre la piramide d’età della popolazione italiana si assottiglia sempre più alla base, mettendo a rischio finanche la sopravvivenza futura del nostro Paese.

Luca Vitale, Fratelli d’Italia – Grosseto

BANKITALIA: RALLENTANO LE STIME DI CRESCITA DEL PIL ITALIANO

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Da più di un biennio l’Europa sembrava aver trovato la strada verso l’uscita dalla recessione e dalla crisi economica. La situazione nei mercati del Vecchio Continente non si era assestata ancora ai livelli precedenti al 2008, ma era ragionevole credere che il terreno perduto potesse essere recuperato nel giro di qualche anno. Questo fino a ieri. Oggi, invece, gli indicatori economici suggeriscono tutt’altro. Bankitalia ha infatti abbassato le stime di crescita del PIL per quest’anno: dall’1,2% all’1%, per un totale di due decimali di punti in meno rispetto a quanto ci si aspettava a inizio dell’anno. Per il 2019 le previsioni mantengono un +1% di PIL, ma è un numero su cui si continua a discutere e su cui il governo si è confrontato con le istituzioni dell’Unione Europea. Da Palazzo Chigi, infatti, insistono: le misure inserite nella manovra finanziaria avranno il loro effetto macroeconomico positivo, per cui è ipotizzabile una crescita che superi di mezzo punto la cifra prevista da Bankitalia. Quel che non tiene in considerazione l’esecutivo, a leggere il documento redatto dall’ente presieduto da Visco, è l’effetto che un aumento dei tassi di interesse sui titoli di stato potrebbe avere sull’intero assetto economico.

E il copione non sembra diverso nemmeno per il 2020, poiché “gli effetti negativi sull’attività economica derivanti dal profilo più elevato dei tassi di interesse osservati e attesi, oltre che da un’espansione più contenuta della domanda estera, compensano quelli di segno opposto riconducibili agli interventi contenuti nella manovra di bilancio e al calo delle quotazioni del greggio”. Quindi, conclude Bankitalia, ipotizzando una moderata espansione della domanda interna e dei consumi, gli investimenti potrebbero comunque ridursi a fronte di un aumento dei costi di finanziamento per le imprese. Anche l’inflazione, stando alle previsioni della banca nazionale, aumenterebbe meno rispetto al previsto: due decimi di punto in meno, soprattutto per via della diminuzione del costo delle materie prime.


Se Atene piange, Sparta di certo non ride: nelle stesse ore in cui sul sito di Bankitalia veniva pubblicato il documento, l’omologa banca tedesca, la Bundesbank, decurtava di mezzo punto percentuale le stime di crescita tedesche, portandole all’1,5% per il 2018 e all’1,6% per il 2019-2020, rispetto all’1,9% previsto a luglio. Volendo fotografare la situazione attuale dello stato di salute dell’economia europea, si potrebbe dire che questa ha sì attraversato la fase più acuta della malattia (la recessione), ma non è ancora guarita del tutto, anzi…

Luca Vitale, esponente grossetano di Fratelli d’Italia, commenta così le novità arrivate da Palazzo Koch: “La Banca d’Italia conferma i timori dei risparmiatori italiani, ma le aspettative sono meno rosee per tutta l’Eurozona. Questo ci deve far riflettere: se l’economia dell’Unione non migliora, evidentemente c’è qualcosa che non va nelle politiche proposte da Bruxelles. Certamente il governo italiano può fare di meglio rispetto a quanto finora visto, ed è quello che il nostro partito chiede: misure anche più coraggiose rispetto alla manovra al vaglio del Parlamento, ma che vadano nella direzione giusta, ovvero verso l’agevolazione delle famiglie sui consumi e un maggiore supporto alle aziende italiane che vogliono investire puntando tutto sulle qualità del nostro paese”.

GLOBAL COMPACT, L’ENNESIMA BEFFA AI DANNI DELL’ITALIA

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Il governo Lega-M5S sembra aver fatto marcia indietro sul cosiddetto “Global Compact for Migration” e, come ha giustamente detto Giorgia Meloni, che si è battuta contro quest’ennesima cessione di sovranità nazionale, questa è una prima vittoria. La vittoria del buon senso, verrebbe da dire.

Infatti, nonostante l’obiettivo dichiarato nella stesura finale, che dovrebbe essere sottoscritta al summit dell’Onu a Marrakech, reciti nel titolo “Global compact per una sicura, ordinata e regolare migrazione”, il contenuto dell’accordo presentato dalle Nazioni Unite, qualora sottoscritto, vincolerebbe ancor più l’Italia nella gestione dei flussi migratori. Contrariamente a quanto si legge nel testo, il Global Compact non è né un accordo sulla ripartizione dei migranti tra i paesi ONU, né un principio di cooperazione internazionale tra paesi “di emigranti” e paesi “di immigrati”, bensì un ulteriore documento ideologico che mira a soverchiare la sovranità nazionale nella gestione dei propri confini e delle politiche migratorie. E il testo del Global Compact lo esplicita chiaramente; nella sezione “la nostra visione e principi guida” si legge: “la migrazione è stata parte dell’esperienza umana nel corso della storia, e noi riconosciamo che è una fonte di prosperità, innovazione e sviluppo sostenibile nel nostro mondo globalizzato” (art. 8).

Gli obiettivi principali del documento delle Nazioni Unite sono inerenti la tutela dei diritti umani degli immigrati; nulla in contrario nei confronti di questi provvedimenti, ma essi sono già previsti dal diritto internazionale. Il Global compact, sotto questo aspetto, è ridondante. Ribadisce infatti tutele già esistenti grazie a convenzioni dell’ONU stessa. Ciò che è interessante, e motivo di dibattito politico, è invece l’insieme degli obiettivi “accessori” che rivelano la natura squisitamente ideologica del Global compact. Tra i 23 obiettivi che il documento dichiara di voler perseguire, si legge: “promuovere una comunicazione indipendente, obiettiva e di qualità da parte dei mezzi di comunicazione (…) anche sensibilizzando ed educando i professionisti dei media sulle tematiche e la terminologia relativa all’immigrazione” (art. 32, comma c). Si chiede, in breve, di ammaestrare la stampa per far sì che emerga dalla narrazione comune un’immagine candida dei fenomeni migratori. Bisogna far sì – secondo l’ONU – che l’immigrazione venga vista come “fonte di prosperità”, e rendere impossibile qualsiasi opinione divergente. Chiunque non veda i fenomeni migratori come occasione di innovazione in un contesto globalizzato deve essere zittito, silenziato. E si potrebbero fare altri esempi di obiettivi e articoli che, sotto un manto di innocente tutela dei diritti umani (questa sì, sacrosanta), mirano invece a circoscrivere la possibilità dei singoli stati sovrani di decidere in piena autonomia, obbligandoli ad adeguarsi ad una visione uniforme che non prevede dissensi e voci fuori dal coro.

In un paese in cui il fenomeno dell’immigrazione irregolare appare quasi inarrestabile, la sottoscrizione del Global compact avrebbe effetti deleteri e rappresenterebbe l’ennesima beffa ai danni del popolo italiano. È per questo che condivido l’appello di Giorgia Meloni per bloccare la firma di un documento che, lungi dal generare un’attenta analisi dei flussi migratori, mira a sottomettere i paesi vulnerabili come l’Italia.

Luca Vitale, Fratelli d’Italia – Grosseto

BANCHE, URGE UNA SOLUZIONE ALTERNATIVA PER TUTELARE LE PMI ITALIANE

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Sulle banche e sull’inefficace, se non dannosa, azione del governo abbiamo già avuto modo di esprimerci. L’esecutivo precedente, targato PD, ha sacrificato l’interesse dei cittadini truffati sull’altare della stabilità bancaria, quello attuale – contrariamente ai proclami della campagna elettorale – ha deciso di trattare con le banche utilizzando i guanti di velluto, condonando ben 5 miliardi di euro alle stesse banche, ai danni dei creditori che così non potranno che avere, tutt’al più, un rimborso simbolico. Eppure sono in molti a dire che le soluzioni proposte dai vari residenti in Palazzo Chigi in questi ultimi due anni sono ben lungi dal raggiungimento della tanto agognata stabilità bancaria, e soprattutto che – se questa viene conseguita a scapito del tessuto economico del paese – qualsiasi provvedimento sarà vano. Persino un personaggio come Soros è arrivato a scrivere che è stata “persa una opportunità fondamentale quando, in risposta alla crisi, i costi del risanamento sono stati orientati a favore dei creditori rispetto ai debitori e che questo abbia contribuito alla prolungata stagnazione successiva alla crisi”. E su questo – per quanto da esponente di Fratelli d’Italia mi consideri lontanissimo dal modo di pensare e agire dello speculatore ungherese – ha ragione.

Sì, perché se la soluzione è mettere le piccole e medie imprese nelle mani della finanza e dei fondi speculativi, come è avvenuto di fatto grazie al Fondo di Garanzia sulla cartolarizzazione delle cosiddette “sofferenze” – in vigore dal 2016, allora significa non tenere in considerazione le vere vittime di questa situazione, ovvero i cittadini stessi, i pochi che ancora si ostinano a fare impresa in Italia. E così facendo la stabilità bancaria sarà raggiunta, per poco, solo a un prezzo salatissimo per l’intero paese: primo, perché le imprese che pure potrebbero sopravvivere sul mercato, saranno costrette a chiudere per via della cartolarizzazione di debiti che non sono in sofferenza, ma mostrano soltanto criticità creditizie (ammissibili in un contesto economico da poco uscito dalla recessione), e in secondo luogo perché la cessione dei crediti ai fondi speculativi non avviene in maniera indolore da parte delle banche, che saranno così costrette a registrare delle perdite enormi, da sanare con improbabili aumenti di capitale. Col rischio, magari, di finire tra le braccia di quei fondi finanziari che hanno acquistato a prezzo di saldo i crediti cartolarizzati.

Si potrebbe riassumere il tentativo dei governi con un motto di spirito: l’intervento è andato bene, il paziente sta morendo. Ma una soluzione alternativa esiste? Certamente sì! Come ha scritto di recente l’avvocato Crivellari, basterebbe creare un fondo misto (pubblico e privato) che “possa fungere da “assicuratore ” delle eventuali perdite delle banche conseguenti al default di piani di rientro di debitori critici, percependo un premio di mercato per il rischio assunto”. Così agendo, si eviterebbe l’ipotesi di aiuto di Stato e si darebbe più tempo per rientrare alle imprese indebitate, evitando a queste ultime la chiusura dei battenti per via dei debiti bancari su cui pendono delle gravose ipoteche. Questa misura, con le relative limitazioni al suo impiego, permetterebbe ai debitori di stabilire un piano di rientro pluriennale credibile per avvalersi della copertura del fondo secondo i limiti previsti e in ultima istanza rispetto alle altre garanzie sui debiti.

Il provvedimento in questione avrebbe il vantaggio di restituire ossigeno alle imprese indebitate e in difficoltà, evitare che le banche registrino enormi perdite conseguenti alla cartolarizzazione dei crediti, limitare futuri interventi statali all’interno del sistema bancario, come invece appare probabile alla luce degli effetti del Fondo di Garanzia sulla cartolarizzazione delle “sofferenze” (GACS). Per questo, da cittadino e da esponente di Fratelli d’Italia, che da sempre ha a cuore la salute economica delle imprese italiane, spero che l’esecutivo attuale voglia provvedere tenendo in considerazione misure alternative al GACS come quelle qui proposte.

Luca Vitale